“Not all men”, ma anche uno è troppo

Dopo i tristemente noti fatti di Palermo ho sentito sempre più forte l’ondata di indignazione femminile chiamare in causa le voci maschili a intervenire sull’argomento della violenza di genere. Di fronte a questi appelli non ho mai avuto chiaro cosa rispondere, ma forse è giunto il momento di prendere in mano la faccenda e fare quantomeno ordine mentale su quale possa essere il mio ruolo di fronte a certe tematiche, sperando che un contributo alla causa risulti in qualche modo utile a qualcuno. Perciò, partiamo dall’inizio.

A me quanto è successo fa schifo. Quando per la prima volta ho letto il trafiletto che narrava l’accaduto sullo schermo di una stazione ferroviaria stavo transitando veloce e senza pensieri con le valigie in mano, e la prima reazione è stata di sbigottimento e incredulità. Semplicemente nel mio mondo non è concepibile che sette ragazzi possano approfittare di un’altra persona nello stesso anno e paese in cui vivo. Non lo trovo un avvenimento possibile, così come molti altri di quelli che quotidianamente accadono in tutto il mondo e sento narrare dagli organi di informazione. Ho preso una laurea in giornalismo, eppure mi rendo conto di trovarmi sempre più a fare lo struzzo. Metto la testa sotto la sabbia perché mi sento impotente di fronte ai problemi del mondo, credo sempre meno nell’attivismo e in particolare in quello da social network, e sento di avere una conoscenza sempre più parziale e insufficiente sui problemi. Io, giovane idealista che discutevo con mia madre perché sosteneva fosse difficile dopo una giornata di lavoro e faccende di casa trovare il tempo di approfondire la politica con la lettura di un giornale e farsi un’idea su certi temi, mi trovo a cambiare canale quando il TG parla di conflitti internazionali perché non riesco ad essere sereno come vorrei. Fa schifo, ma lo devo dire. E ci sarebbe tutta una parentesi da aprire sul racconto mediatico che si fa sempre più emozionale e morboso, cozzando direttamente con la mia sensibilità e aggiungendo poco e niente all’informazione e risoluzione del problema, ma per stavolta scelgo di non farlo e cercherò di rimanere quanto più possibile sul tema che devo trattare.

La prima reazione è quella dell’incredulità, la seconda lo schifo, la terza la vergogna. Come uomo e come essere umano, anche con la mia compagna con cui non sono riuscito a parlarne se non qualche giorno dopo. Infatti poi in genere – lo ammetto – mi fermo qui. Non riesco ad andare oltre. Non riesco a parlarne, e non sento l’esigenza di condividere niente sul mio profilo perché credo sempre sia qualcosa destinato a rimanere nella mia bolla di persone sensibili e di cui mi fido, la cui coscienza mai li porterebbe a fare qualcosa di lontanamente simile a una donna. Sento di non avere nessun comportamento che possa equipararmi in qualche modo a uomini che rappresentano un problema per la società, e di non dover ribadire questa cosa alle persone che mi conoscono. Eppure mi domando sempre se sia vero fino in fondo, e se sia giusto mantenere questo silenzio, estraniarmi dai fatti del mondo, lasciare che le cose facciano il loro corso. Stavolta ho pensato di no, e che forse la mia esperienza può essere utile a qualcuno. Ci ho pensato dopo l’ennesimo elenco di comportamenti che favoriscono la cultura della violenza e dello stupro in cui mi sono imbattuto, con cui mi sono confrontato e ho pensato ok, no, non sono questo. Poi però mi sono chiesto se sia sempre stato così e per quante altre persone sia vero.

E qui trovate le altre.

Credo di aver avuto perlopiù fortuna nell’esser nato in una famiglia che mi ha educato al rispetto di ogni essere umano, a prescindere da qualsiasi caratteristica lo contraddistingua. Credo che la responsabilità ricada parimenti in ciascun membro, maschile e femminile, ma sono particolarmente contento di un’esternazione che ho sentito fare a mio padre quando ero ormai in età adulta. Lui che come me è andato via dalla sua città di origine a vent’anni, tornando una volta per uscire con dei vecchi amici era rimasto deluso di come uno di questi, in un pub, abbia dato dei soldi al figlio per offrire da bere a delle ragazze lì presenti, appellandole con aggettivi squallidi che non starò qui a riportare. Mio padre si diceva felice di non aver mai avuto questo rapporto con i suoi figli, e io in quel momento ho pensato lo stesso. Se è vero che la nostra relazione non ha mai previsto momenti di confronto su certi temi, mi è sempre bastato il suo esempio per capire come ci si relaziona con l’altro sesso.

Ho sempre fatto fatica a seguire quel che facevano i miei compagni, e non lo dico come un vanto ma come una constatazione. Anche per me la discoteca era il luogo dove si doveva rimorchiare, ma non mi è mai riuscito fare ciò che vedevo mettere in atto ai miei coetanei, piazzarsi dietro alle ragazze, separarle dalle amiche, continuare a forzare l’approccio finché un no non diventava un . Non so se per insicurezza rispetto all’aspetto fisico, o una qualche forma di sensibilità. Semplicemente sentivo che non era una cosa che faceva per me. Io al più scrivevo poesie o lettere, con risultati che potete immaginare. Trovavo assurdo il consiglio che ti davano da ragazzo che per avere successo con le donne dovessi trattarle male. Sono un santo? Al contrario. Per una fase della mia vita sono stato geloso marcio, possessivo e credo un ricattatore emotivo. Poi per fortuna sono cambiato, ho chiesto scusa in ogni forma a chi era dovuto, e mi son posizionato all’estremo opposto. Ma questo basta a definirsi oggi una brava persona?

Sarò sincero, nessuno mi ha aiutato direttamente a uscire dalla mia precedente condizione. Pur riconoscendo di star sbagliando qualcosa, non avevo la lucidità o un background culturale giusto per avvicinarmi a un percorso di psicoterapia, che invece avrebbe fatto un gran bene (e per fortuna è arrivata in seguito per tutt’altro motivo), o chiedere aiuto a qualcuno. Se son cresciuto è successo guardando da solo i miei sbagli e come mi han fatto sentire, e con l’osservazione del comportamento degli altri. Mi son scelto da solo le compagnie di amici in base alla stima che provavo per loro, magari allontanandomi progressivamente da chi ritenevo diverso da me su una scala di valori. Ma oggi mi trovo a riconoscere che non è più sufficiente, e che al contrario di ciò che avevo sempre pensato, il mondo non evolve da solo verso una dimensione più civile. Ci vuole uno sforzo, perché accada, e tanto lavoro.

Tra le tante fortune che ho avuto nella vita c’è anche quella di aver insegnato a degli studenti ben più giovani di me, e aver potuto constatare come nelle nuove generazioni questa coscienza civile della violenza di genere sia ben più radicata e diffusa. Eppure i protagonisti dell’ennesimo orribile fatto di cronaca hanno tutti meno di venti anni. Come si fa a uscire da questa situazione? Che possiamo fare per evitare di sentirci ancora una volta impotenti di fronte a questi avvenimenti? Che può fare oggi un uomo per rendere il mondo un posto migliore, senza troppe ipocrisie?

Partirei da un paio di assunti: riconosciamo di avere un problema. Ricordo con esattezza la prima volta che ho compreso che la vita maschile e femminile non sono purtroppo uguali. Ero uscito per un aperitivo con un’amica, che dovendo andare a riprendere la macchina mi confidò di aver pagato un po’ di più il parcheggio pur di poterla posizionare in un posto ben illuminato e vicino al locale. Prima di allora non avevo mai pensato – con tutta l’ingenuità del mondo – al privilegio che avevo io nel poter fare a qualsiasi ora ciò che volessi, con la mia macchina (ed il mio corpo). Da lì, crescere è stato un percorso di scoperta continua su come non sia corretto fissare una ragazza o camminare dietro di lei per strada, fare apprezzamenti non richiesti o emettere giudizi sul suo aspetto o comportamento, tentare di spiegarle cosa debba fare o come debba sentirsi. Non è mai troppo tardi per iniziare a riconoscere che ci sono delle differenze lampanti nel modo in cui la società consente di vivere agli uomini e alle donne. Basta un piccolo esercizio di empatia, calarsi nella vita di una donna (ma è un ragionamento che estenderei a qualsiasi categoria considerata minoritaria), e rendersi conto che il mondo in cui viviamo poggia fin troppo comodamente sul potere degli uomini. E non deve necessariamente essere così.

Se per alcuni tutto questo può risultare scontato, se siamo effettivamente in tanti a riconoscerci in questa rassicurante posizione di giustizia e consapevolezza, l’altra domanda che viene da fare è: cosa facciamo per combatterlo attivamente?

Quante volte abbiamo detto basta a quell’amico inopportuno con l’altro sesso? Da quante chat del calcetto siamo usciti, o abbiamo ripreso il compagno per cui una ragazza con cui andare a letto è giusto una tacca in più sul muro del proprio ego? Siamo mai stati in grado di dire al nostro capo che quella battuta sessista non è simpatica né opportuna? Mentre scrivevo questo articolo ho pensato se non fosse proprio questo senso di colpa per non riuscire a fare sempre la scelta giusta che mi ha portato a non parlarne apertamente, per paura di esser tacciato di ipocrisia. Quante volte siamo riusciti ad uscire dal gruppo?

Negli articoli di cronaca su casi come questo si usa sempre l’immagine retorica del branco. Un contesto dove noi uomini ci sentiamo protetti, un luogo a cui aspiriamo, che ci fa sentire forti, spalleggiati, normali. Lungi da essere un saggio sull’argomento, ho trovato illuminante in tal senso il libro L’animale che mi porto dentro, di Francesco Piccolo (qui una descrizione). Una sorta di autobiografia che va alla ricerca nella vita dell’autore di tutti quei momenti in cui la sua parte animale è stata educata o è entrata in risonanza con quella di altri simili. Una lettura che consiglio a chiunque, a prescindere dal suo genere, che non offre risposte ma inizia a fare le domande giuste. Perché è così difficile affrancarsi dal branco?

Ciò che mi ha fatto più paura di questo ultimo caso di cronaca è che nelle chat degli autori del crimine che sono trapelate (e che ribadisco, non avrebbero dovuto avere questa diffusione) emerge chiaro come alcuni dei componenti avessero ben chiaro che quello che stavano facendo era sbagliato, sia durante l’atto, sia nei giorni successivi. Nessuno però ha avuto il coraggio di fermarsi, intimare agli altri di smettere, o almeno riconoscere a posteriori di aver sbagliato tutto. Men che mai costituirsi. Ecco perché, prima di consigliare a una ragazza di non girare in certe zone, frequentare certa gente, avere con sé un mezzo di autodifesa (che in fondo è la prima risposta che a volte viene data da certe persone, sia di sesso maschile che femminile) direi a tutti i miei simili che è l’ora di darci un taglio. È ora di smettere di parlare in un certo modo, di agire in un certo modo, di spalleggiarci sempre, di non puntare il dito su ciò che c’è di sbagliato. Se finora ho taciuto sull’argomento è perché ritenevo scontato che certi comportamenti fossero sbagliati per tutti, ma giorno dopo giorno mi accorgo sempre più di no. Se è tramite l’esempio e l’osservazione degli altri che si può crescere, iniziamo a farlo tutti insieme. Prendiamoci le nostre responsabilità.

Iniziamo quantomeno a vedere cosa c’è che non va in noi, nella nostra vita di tutti i giorni e in relazione con gli altri. Troviamo un modo per parlarne senza necessità di imbarazzo o autocompiacimento. Facciamo per cinque minuti al giorno l’esercizio di metterci nei panni dell’altro, immaginiamo per una volta come potrebbe essere vivere una vita dove le opportunità sono uguali per tutti, a prescindere dal genere, e muoviamoci per renderlo possibile. Riconosciamo che un mondo dove metà della popolazione non si sente libera di vivere la propria vita non è un mondo giusto, e facciamo qualcosa per cambiarlo. Facciamolo per quelle donne che ce lo chiedono, e per non doverci più vergognare di ciò che siamo.

E se sentite che ciò che avete letto fin qui è scontato, che sono parole già lette e pensieri già detti, provate a esprimerli a modo vostro. Iniziamo a parlarne, perché forse è vero che non possiamo più tacere. Non tutti gli uomini sono così, ma anche uno è troppo. E di questi fatti sarebbe bello non leggerne più.


Piccola postilla: purtroppo non ho una gran cultura sull’argomento, e mi dispiace che l’unico libro citato sia di un autore maschile. Credo che il web sia a portata di mano di tutti per trovare altri titoli utili, ma un consiglio che posso darvi è quello di seguire @SenzaRossetto, il progetto di due amiche che da anni si occupano di divulgazione su queste tematiche. Non mi sono perso mai neanche una puntata della loro newsletter. Se invece volete restare in contatto, io sono @_davidelo

Questo è il blog di Davide Battisti, digital storyteller: qualcuno che racconta storie attraverso la rete. Anche se nella vita parlo sempre meno, mi occupo e appassiono di comunicazione. Mi trovi su Instagram al link https://www.instagram.com/_davidelo/