Come sopravvivere alle relazioni umane

Scrivo questo post non con poco sforzo, per mettere in fila dei pensieri che ho in mente da un po’. L’argomento non è dei più semplici, ed è quello che mi ha dato più grattacapi negli ultimi anni. Perché sì: le relazioni umane sono una fatica.

Dovremo fare senza? Non credo. Giunto all’alba dei trentatré anni però vorrei metter giù due linee guida su cosa significa – almeno a questa età – tenere in piedi una relazione sociale. L’ho pensato ieri sera mentre guidavo tra le strade buie del mio paese di origine, nel periodo di Natale. Come saprà chi vive lontano da casa le festività natalizie sono il periodo più malinconico dell’anno: alla dolcezza del ritorno tra le mura familiari si accompagnano il senso di colpa di esser scappato via, e la consapevolezza che vivere più vite è – se non impossibile – quantomeno difficile. Fermarsi per qualche giorno dalla frenetica routine fatta di chiamate lavorative ad ogni ora e faccende domestiche richiede al mio corpo e alla mia testa un periodo di riposo pressoché assoluto. Un periodo in cui fermarsi e riprendere possesso delle proprie facoltà, o quantomeno far respirare i pensieri, senza appuntamenti sul calendario. Eppure, se si vuole mantenere un legame con le persone con le quali si è cresciuti è necessario organizzarsi, mettere mano alle agende, pianificare, ma tenere un programma anche dei propri giorni di festa è un’impresa che poche tra le persone che conosco riescono a fare alla leggera. Quindi si va avanti veloci verso il giorno in cui il treno ci riporta alle nostre nuove città, e ci si rende conto che si sarebbe potuto senz’altro fare di più, vedere più amici, regalare più tempo. E avanti con un nuovo anno.


Quando in queste occasioni mi fermo, mi domando cosa siano le relazioni e perché siano così importanti. Negli anni la risposta è mutata più volte, e non credo di essere ancora giunto a quella finale. Sono nato in un paese di cento anime della campagna Toscana, dove oltre a me e mio fratello i bambini erano una cosa rara. I miei pomeriggi li ho passati perlopiù coi miei nonni o a giocare con qualche videogioco, più che ai giardinetti con i miei coetanei. Gli amici conosciuti a scuola erano mostri strani con cui sentivi di avere qualcosa in comune, e con i quali era lecito fare cose stupide insieme: in loro assenza le cose che prima facevi da solo suscitavano sempre meno interesse, e la loro compagnia era qualcosa di prezioso, da bramare.

Crescendo, nel periodo dell’adolescenza, i tuoi amici sembravano diventare sempre più uno specchio, qualcuno da cui avere un rimando per comprendere se davvero andava tutto bene. Dentro di loro però potevi vedere e conoscere anche altre parti di mondo, che insieme sembrava sempre a portata di mano. Le compagnie si moltiplicavano, e oltre ai tuoi amici di infanzia c’erano quelli incontrati lungo il percorso, i compagni del liceo, quelli di squadra. E poi, come se non bastasse, arrivava qualcosa di ancora più strano a stravolgere tutto: le relazioni affettive. Incontravi qualcuno al cui cospetto tutto il resto scoloriva, l’unica persona con cui avresti voluto passare del tempo, tutto quello che avevi a disposizione, perché (nel migliore dei casi) ti faceva sentire compreso, amato. 

Comprensione, amore, stima e affetto: questi bisogni sono posizionati dallo psicologo Abraham Harold Maslow nella sua Piramide dei bisogni appena dopo quelli primari di fame, sete, e sicurezza dalle minacce esterne. È sotto gli occhi di tutti come ogni essere umano non possa prescindere dalla soddisfazione di questi bisogni per avere una vita in salute (studi recenti stimano addirittura una probabilità del 50% di vivere più a lungo se si hanno relazioni sociali forti). 

La “Piramide dei bisogni” di Meslow

Ma cosa sono le relazioni umane?

Ok, credo sia giunta la prima tappa a cui fermarsi: cosa sono quindi le relazioni? La risposta al nostro bisogno di sentirci amati, un modo per conoscere il mondo, di farsi forza assieme, o semplicemente qualcuno con cui fare cose stupide e non pensare per qualche tempo ai propri problemi? Un po’ tutto questo, mi viene da dire. 

In uno dei libri più significativi che abbia letto negli ultimi anni lo storico Yuval Noah Harari ricapitola tutta la storia dell’umanità dalla sua nascita. Parte fondante del nostro successo come specie pare essere proprio la capacità di stabilire relazioni tra individui con uno stesso scopo. Rifacendosi agli studi di Robin Dumbar che individuano in 150 persone il numero massimo di legami sociali che una persona può attivare e coltivare in contemporanea, Harari nota come in un gruppo di pari il raccontarsi a vicenda delle storie e condividere narrazioni e credenze sia il collante che ci ha permesso di unirci e prosperare, fino a diventare la specie dominante sul pianeta.

In particolare, con riferimento alle chiacchiere e al pettegolezzo

La cooperazione sociale è la nostra chiave della sopravvivenza e della riproduzione. Ad ogni uomo o donna presi a sé non basta sapere dove ci sono i leoni o i bisonti. Molto più importante per loro è sapere chi, nel loro gruppo, odia chi, chi dorme con chi, chi è onesto e chi è un imbroglione. […]  La nuova perizia di linguaggio che i Sapiens acquisirono circa settantamila anni fa consentì loro di chiacchierare per ore senza interruzione. Il fatto di avere informazioni attendibili riguardo agli individui di cui ci si poteva fidare dette l’opportunità di ampliare i ranghi del gruppo, e i Sapiens poterono sviluppare più stretti e più sofisticati tipi di cooperazione.

Insomma, se mi perdonate la lettura utilitaristica (e meno magica o sentimentale), le relazioni ci servono per diventare più forti. Come recita il detto: 

Se vuoi andare veloce, vai da solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme a qualcuno.

Crescendo ti rendi conto di quanto tutto questo sia vero, sopratutto dal punto di vista lavorativo: una parte integrante della vita professionale è intessere relazioni di valore con la comunità lavorativa, interna ed esterna all’azienda. Anche in questo caso gli studi ci insegnano che buone (e numerose) relazioni sociali sono il miglior presupposto per trovare lavoro e in seguito avere una buona carriera. Le chiacchiere con i colleghi alla macchinetta del caffè non sono solo un momento di svago, per staccare la testa dall’intensità del lavoro, ma anche un viaggio nel tempo che ci riporta al paleolitico, alle notti intorno al fuoco in cui organizzare insieme la battuta di caccia. Ho avuto sempre la fortuna di lavorare con colleghi e colleghe piacevoli, simpatici, stimolanti: passare del tempo insieme è sempre stato un piacere, dentro e fuori dall’ufficio, in un bel rapporto di amicizia. Eppure, finite le otto ore lavorative spesso mi trovo nella posizione di declinare degli inviti per passare altro tempo insieme, e la motivazione è la stessa per cui nelle vacanze non riempio l’agenda di appuntamenti: il bisogno di riposare. Che non è solo sdraiarsi sul divano a non far niente, ma dedicarsi alle attività che ci fanno stare bene, prendersi del tempo per se’. 

In questo gioca senz’altro una parte rilevante l’indole personale: ci sono persone più socievoli e inclini alla compagnia e a ricavare piacere da questa, ed altre più introspettive o introverse, che necessitano di momenti con se stessi per sentirsi bene. Personalmente mi sento più appartenente alla seconda categoria, quando a volte preferisco la compagnia di una narrazione già scritta (come un libro o un film) a quella trasmessa a voce da un amico. E capisco che alle volte possa essere una delusione per quelli appartenenti alla categoria degli estroversi, ma questo articolo vuole esistere proprio per spiegare che non c’è niente di personale di fronte al diniego di un invito.

Per me uscire con altre persone è estremamente importante, ma nei tempi che la mia indole mi richiede. Comodo, vero? Non so. 

Ci sono giorni, serate perlopiù, in cui mi trovo sul terrazzo a guardare le luci delle altre case e sentirmi solo (complice anche il feed di Instagram, che vive per farti sentire tagliato fuori. Ma questa è un’altra storia). So che avrei la possibilità di chiamare qualcuno e uscire, ma non riesco a farlo. Allora inizio a ricordare con nostalgia le belle serate passate insieme ai migliori amici, mi domando come stia una persona a cui voglio bene che non sento da tempo, magari gli mando un messaggio, inizio a pianificare un ritrovo nelle settimane a venire. Ma se ricevo l’invito ad uscire la serata successiva, nella maggior parte dei casi la risposta sarà un no. Ci sono chiaramente periodi più o meno tranquilli, impegni che vanno e vengono o commissioni da fare che possono influenzare la risposta, ma ciò di cui mi sono reso conto ormai è che delle relazioni e del mio tempo, così come in tanti aspetti della mia vita vorrei avere la sensazione del controllo. E la sfida è comprendere e accettare che non potrà mai essere completamente così. 

Ricevere un invito è qualcosa che in qualche modo rimette in gioco i miei piani, un evento da gestire – ma non è sicuramente qualcosa di negativo, anzi: se scopro che degli amici si sono visti senza farmelo sapere ci rimango male, come penso avvenga per ognuno di noi. Un invito è pur sempre una scelta, una decisione in più da prendere che è più impegnativa in un periodo impegnativo, e più leggera in un periodo spensierato, ma sempre un’opportunità di decidere che fare della propria vita (e la dimostrazione di aver avuto un pensiero nei miei confronti). 

La solitudine è una condizione meno amara se è una propria scelta? Beh, direi di sì. È una dimensione in cui ascoltare i propri pensieri, fare bilanci, capire in che direzione ci si sta muovendo, cosa si desidera e cosa ci spaventa. Così come lo è il confronto con le altre persone a cui vogliamo bene. Per me sono due facce di una stessa medaglia.

L’unico insegnamento possibile

Crescendo ho imparato una cosa, e provare a condividerla è il motivo per cui scrivo questo articolo: non è importante la quantità di tempo che si passa insieme a una persona, ma la qualità di questo, che conta. Per qualcuno potrà sembrare una cosa da poco, ma a me ha richiesto un bel percorso di crescita per arrivarci. Un percorso a ritroso per riappacificarmi con il periodo in cui da bambino passavo ore a giocare da solo in cameretta, e quello in cui nell’adolescenza passavamo giornate intere al bar con gli amici a non far niente. E credo che nessuna delle due attività fosse uno spreco di tempo: sono entrambe fasi che hanno contribuito a rendermi ciò che sono. Dico solo che è meglio non indugiare in nessuna delle due, né nel sentirsi solo, né nel forzarsi a uscire controvoglia se non si è predisposti al dialogo e all’ascolto (a meno che dall’altra parte non ci sia una forte esigenza!).

A volte ci trovo similitudini con il senso di spaesamento che mi assale al pensiero della quantità di libri che esistono: se è vero che ciascun libro può insegnarci qualcosa, è fisicamente impossibile leggere tutto ciò che viene stampato al mondo. La sfida è trovare il libro giusto per il momento che si sta vivendo, quello che può aiutarci a leggere meglio la condizione in cui ci troviamo od offrirci spunti per muoverci in nuove direzioni. È altrettanto impossibile mantenere rapporti con tutte le persone che si conoscono, o addirittura con le loro altre compagnie, ma è possibile trarre il massimo da quelle occasioni che si hanno di passare del tempo insieme. Tutto logico, se non che i libri non hanno esigenze e sentimenti nei nostri confronti. Quindi che fare?

Diventare adulti è una lotta continua tra gli impegni di lavoro, le responsabilità familiari, i propri progetti e anche il mantenere buoni rapporti di amicizia. Ognuno di noi è immerso ogni giorno in questo caos, e dare il giusto valore ai momenti che ciascuno sceglie di mettere a disposizione degli altri è il minimo che possiamo fare. Le circostanze della vita ci portano in direzioni differenti, spesso a prescindere dalla nostra volontà, e tentare di tenere tutto insieme è uno sforzo immane. 

Ex-colleghi, compagni di scuola, amici di lungo corso e nuove conoscenze: tante volte ho fantasticato di mettere insieme le 150 persone della mia cerchia riunite in una sola compagnia, salvo scontrarmi inevitabilmente con la realtà dei fatti, dell’impossibilità di realizzare certe riunioni per le contingenze spaziali e temporali, e anche perché alla fine le persone non sono alle nostre dipendenze, com’è giusto che sia. Ciascuna di queste persone però permette a un piccolo pezzo di me di vivere, anche nei pochi istanti di un messaggio Whatsapp. 

Ci sono tante parti di me quanti i contesti in cui ho vissuto, alcune sepolte da tempo, altre pronte a tornar fuori alla prima rimpatriata, altre che sarebbero potute diventare qualcos’altro, se solo fossi rimasto in quel contesto, quel paese, quell’azienda o compagnia di amici, altre ancora che ho timore di far nascere e poi veder morire, conoscendo nuove persone: tutto questo pensavo durante il mio viaggio solitario in macchina tra le strade buie del mio paese, nelle vacanze di Natale. 

“Marco Polo entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi; al posto di quell’uomo ora avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima a un crocevia invece di prendere una strada avesse preso quella opposta e dopo un lungo giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui é escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora é il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.

Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio é discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla.”

Poi l’indomani ho sfruttato uno degli impegni che avevo in programma, un altro viaggio in macchina verso la stazione, per passare del tempo con un’amica di sempre: un’ora insieme a fare pettegolezzi e interrogarci delle direzioni delle nostre vite. E sono stato felice. 

Per questo adesso che sono sul treno che mi riporta a casa dico che non è rilevante aver visto ogni amico possibile nelle vacanze di Natale di quest’anno, che è umano aver fatto delle scelte, perché se abbiamo vissuto qualcosa di importante insieme, quel momento potrebbe arrivare anche tra altri dieci anni. Perché le circostanze di questo periodo non ce lo hanno permesso, perché a entrambi la vita ha dato motivo di pensare ad altro in questo momento, e perché se l’ora di prendersi cura dell’altro arriverà saremo pronti a coglierla in ogni circostanza. Pronti a vivere a pieno quei minuti che avremo a disposizione per stare insieme, perché dentro di noi abbiamo coltivato quella parte che ci connette all’altro. Credo che questo sia l’importante.

Tutto ciò non vuole essere un’assoluzione completa al lassismo o alla vagabondaggine, ma un invito collettivo a vivere bene le relazioni sociali, comprendere le ragioni dell’altro ed essere sempre onesti con le persone a cui vogliamo bene. Questo è l’unico segreto che ho imparato per sopravvivere bene alle relazioni umane e spero che chiunque passi di qui possa farne tesoro. 

Non sono sicuro di aver trovato una risposta definitiva a cosa siano le relazioni che ci legano alle altre persone, o quanto queste siano una risposta a un bisogno del nostro ego e quale sia il modo migliore per viverle, ma una strada che mi aiuti a vivere questo momento invece penso di sì, ed ho pensato fosse importante condividerla: saper riconoscere le piccole parti dentro di sé che dipendono dai rapporti con gli altri, farle durare e dargli spazio.

E se questa ultima frase vi sembra di conoscerla è perché l’ho rubata a un passaggio di Italo Calvino che vorrei stampare sulla pelle per quante volte mi risuona in testa, perché credo riassuma nel migliore dei modi la condizione umana e i problemi che mi trovo ad affrontare. 

La fine de Le città invisibili, che riprende la citazione di poco più su: 

L’inferno dei viventi non é qualcosa che sarà; se ce n’é uno é quello che é già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo é rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non é inferno e farlo durare e dargli spazio.

Questo è l’unico consiglio che mi è possibile dare, su pressoché ogni argomento, e le relazioni umane non sono da meno.

Spero possa essere utile a qualcuno come lo è stato per me.

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Questo è il blog di Davide Battisti, digital storyteller: qualcuno che racconta storie attraverso la rete. Anche se nella vita parlo sempre meno, mi occupo e appassiono di comunicazione. Mi trovi su Instagram al link https://www.instagram.com/_davidelo/